ALLA RISCOPERTA DEI "MENHIR" PIEMONTESI

Roberto D'Amico


Prima di parlare delle pietre erette e del fenomeno del megalitismo che nel Neolitico coinvolse tutta l'Europa Occidentale dobbiamo tornare indietro nel tempo, all'epoca dei Concili di Arles, 452 d.C., e di Tours, 567 d.C., quando venne ordinata la distruzione delle pietre oggetto di venerazione con ogni mezzo possibile "spezzandole, sotterrandole o gettandole in profondi burroni". Sovrani come Childeberto, Chilperico e Carlo Magno ordinarono allora agli abitanti delle campagne di abbattere tutti i simulacri di pietra e le pietre grezze ai quali si volgeva qualche culto. In quasi ogni parte d'Europa la maggior parte degli antichi megaliti venne così distrutta. Non furono risparmiate neppure alcune (fortunatamente non tutte) delle gigantesche pietre del monumentale cerchio di Avebury, in Inghilterra, che vennero abbattute, poste sopra grandi fuochi e poi cosparse d'acqua fredda in modo da farle frantumare e, infine, ridotte a pezzi, riutilizzate come materiale da costruzione o sepolte. 
L'azione di distruzione venne condotta in modo particolarmente sistematico in Italia, dove la presenza della Chiesa era più permeante. Anche se non più come nel Medioevo, una costante opera di occultamento e di voluta messa in oblio di quelle opere antiche continuò praticamente, anche se in modo più velato, sino ai nostri giorni. Se alcuni di quei monumenti riuscirono a sfuggire al rigore dei Capitolari ciò fu dovuto in qualche caso alla protezione popolare, in altri all'inaccessibilità o all'isolamento dei luoghi oppure, infine, perché vennero "cristianizzati" incidendovi o sovrapponendovi delle croci, come accaduto, per esempio, per il masso situato davanti all'Abbazia di Sant'Antonio di Ranverso. 
A partire dagli anni '80 del secolo scorso, tuttavia, grazie all'opera di tanti volenterosi ricercatori, archeologi e amministratori locali, la storia che la Chiesa aveva cercato di distruggere in modo così capillare iniziò a riaffiorare, anche se i danni da essa compiuti sono stati in molti casi irreparabili. Negli anni che seguirono, grazie al cambiamento radicale del panorama storiografico e culturale e ad una rinata coscienza delle proprie origini, la storia e le opere delle prime popolazioni che avevano abitato la nostra regione trovò nuova vita. Si è così visto crescere il generale riconoscimento dell'importanza che il retaggio del lontano periodo delle pietre erette e delle incisioni rupestri. 
Fu un movimento che partì in modo lento, ma che gradualmente divenne poi sempre più diffuso, vigoroso e inarrestabile. L'eredità celtica e preceltica, che anche solo negli anni '70 era considerata del tutto marginale, se non addirittura vista con sospetto e derisa, venne finalmente da tutti considerata come uno degli elementi fondamentali per poter comprendere le nostre radici e non vi è oggi libro che non ne parli o archeologo che non la accetti. La storia, iniziata molti secoli fa, che aveva segnato il destino delle grandi pietre innalzate dai nostri progenitori era giunta al suo termine! I menhir piemontesi iniziarono ad essere individuati, dissotterrati e rialzati con crescente orgoglio per quel nostro passato. 
Il primo menhir fu segnalato nel 1975 dal Gruppo Archeologico Canavesano a Lugnacco, in provincia di Torino, e fungeva da soglia di ingresso al piccolo cimitero antistante la Pieve romanica della Purificazione di Maria. La pietra, uno gneiss micaceo granatifero, misura 3,84 metri di altezza, 120 cm di circonferenza alla base e 110 cm nella parte superiore e pesa circa 1,5 tonnellate. La sua storia è emblematica. Si ritiene, infatti, che quasi certamente essa venne abbattuta in modo cruento, come sembrano dimostrare le fratture alla base e al vertice e la cospicua quantità di parti asportate. Probabilmente, in tempi successivi, si tentò di distruggerla in modo definitivo, le incisioni a cuneo certamente medievali sembrano, infatti, indicare almeno due tentativi per spezzarla, falliti i quali si decise di nasconderla, secondo una prassi consolidata. La troviamo ora nuovamente eretta accanto al luogo dove fu ritrovata. Il luogo è facilmente raggiungibile e di grande impatto emotivo. 
Il secondo reperto che venne individuato, in ordine di tempo, nel marzo del 1988, fu quello di Mazzè, sempre in provincia di Torino. Durante alcuni lavori di sistemazione del bacino artificiale della Dora, a monte della diga, fu casualmente scoperto, nella struttura realizzata nel 1921 allo scopo di contenere l'erosione delle sponde, un grande blocco di forma allungata completamente sommerso dall'acqua. La Soprintendenza Archeologica del Piemonte, certamente più sensibile e aperta di quella della metà degli anni '70, giudicò autentico ed interessante il reperto e il blocco venne recuperato, studiato e, infine, collocato nell'abitato di Mazzè. Si pensa che il megalite potesse originariamente essere posizionato sull'altura prospiciente la Dora nota come "Bicocca" e che possa essere scivolato progressivamente fin sulla sponda del fiume. È assai più probabile che, riconosciuto come simbolo pagano, anche questo menhir venne intenzionalmente abbattuto, trascinato e fatto rotolare fino al fiume. Anche questo monolito è di pietra gneiss, è lungo 4,2 metri, ha una circonferenza alla base di 2 metri e alla sommità di circa 1 e il suo peso supera le due tonnellate e mezzo. Segni ancora visibili a circa 40 cm dalla base permettono di definire l'originario interramento della stele. Presenta tracce evidenti non solo di una bocciardatura, ma anche di una levigatura abbastanza accurata. Attualmente ha trovato degna sistemazione in un'area dedicata, anche se fuori dal suo contesto originale. 
Nel 1992, a Chivasso, ancora in provincia di Torino, un terzo menhir, denominato popolarmente "Lapis Longus", venne anch'esso finalmente riconosciuto come reperto d'interesse archeologico dalla Soprintendenza e, grazie all'Amministrazione Comunale, sottoposto a restauro. Dopo ben 500 anni dalla sua scoperta! Ancora una volta la sua storia ci illumina sui metodi che vennero applicati per cancellarie la memoria storica di quei megaliti. Ritrovato durante i lavori di ristrutturazione della Piazza del Castello nei pressi della Chiesa di S. Michele nel 1499, l'antico oggetto di culto venne così declassato a "berlina" e i debitori insolventi, esposti al pubblico ludibrio, erano costretti per dileggio a battervi sopra le natiche nude. Verso la fine del XVII secolo, finita la sua funzione di "berlina", la pietra venne appoggiata ad un muro della piazza. Successivamente, nel 1798, i Francesi la spostarono alla periferia occidentale di Chivasso e, infine, ai primi del '900 venne trasformata in panchina! Dopo tutte queste ignobili vicissitudini, ora l'antico menhir ha finalmente un suo posto d'onore nella piazza d'Armi e si erge imponente protetto da una gabbia di vetro. Anch'esso in pietra gneiss, è alto 4 metri e pesa circa 1,5 tonnellate. Sulla faccia anteriore sono visibili grosse "coppelle", delle quali forse solo una originale. 
A Cavaglià, infine, in provincia di Biella, dove nel 2004, accanto al parcheggio della piazza adibita a mercato, furono riconosciuti seminascosti tra rovi e vegetazione selvatica 11 monoliti, dei quali uno ancora in posizione verticale. Tra gli anni '70 e '80, per consentire i lavori di costruzioni delle case, quelle pietre, rimaste nell'oblio per secoli, vennero spostate dalla loro posizione originaria e ammassate poco lontano. Lì sono rimaste fino al 2005, quando il grazie al lavoro dello studioso torinese Luca Lenzi, e di alcune associazioni locali, tra cui Anticaquercia di Biella e il Gruppo Archeologico Canavesano, i menhir sono stati rimessi, anche se non esattamente nel luogo originario né nella posizione esatta, a formare un "Cromlech". Oggi è possibile ammirarli all'ingresso del paese, in prossimità della rotonda della statale Santhià - Biella in un'area ben sistemata e recintata (peccato il pannello scolorito e illeggibile). La visita permette di immergersi per qualche attimo in una atmosfera magica. È interessante notare che la Sovrintendenza di Torino è riuscita a datare questi megaliti al 4.000/5.000 a. C. grazie al ritrovamento di calcare nelle coppelle degli stessi monoliti. Si può certamente ipotizzare una simile età per tutte le pietre erette piemontesi.






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Lu Monticone e Katia Stefani

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