Sul frammento di colonna ritrovato nel pozzo di Piazza Conte Rosso di Avigliana


 Roberto D'Amico 



Il 18 settembre 2021, durante la XII Giornata dell'Archeologia della Valle di Susa, ha creato moltissimo interesse la discesa degli speleologi/archeologi all'interno del pozzo medievale di piazza Conte Rosso di Avigliana. 
Durante questa discesa non era consentito il recupero di alcunché dal fondo.
L'unica volta di cui si ha notizia di un recupero di oggetti da quel pozzo è del 1861, quando, a causa di una grave siccità, essendo eccezionalmente venuta a mancare l'acqua nel pozzo, che era rinomato per l'abbondanza e la stabilità della sua falda acquifera, venne deciso di pulirne il fondo.
Furono asportati circa quattro metri di fango insieme ai resti di molte armi ed armature, "elmi, manette, spade e scimitarre", come riporta il pannello turistico. 
Secondo una tradizione popolare, queste armi sarebbero appartenute agli ultimi eroici difensori del castello gettati lì dentro dalle truppe francesi che nel 1536, al comando del maresciallo di Montmlorency, distrussero l'intera guarnigione composta da 500 armati. 
Tale tragico evento, in realtà, pare ben poco probabile, visto che per poter continuare ad usare l'acqua i cadaveri avrebbero dovuto essere rimossi rapidamente e, inoltre, nel fondo melmoso non furono rinvenuti scheletri. Per cui è assai più probabile che, come riportato nel pannello turistico, fu qualcuno della stessa guarnigione subalpina, certamente per cercare di salvarsi la vita, che si spogliò delle sue armi gettandole nell'unico posto in cui difficilmente avrebbero potuto essere scoperte. 
Oggetto di questa breve nota, però è un altro. Insieme a quelle armi fu, infatti, anche rinvenuto un concio di una colonnina marmorea alto una cinquantina centimetri, oggi conservato nel Museo Civico di Susa. 



Il reperto è finemente istoriato con ghiande e foglie di quercia e ha come elemento principale una strana figura di frate con testa di animale (alcuni pensano di asino, altri di volpe), dalla cui bocca esce un cartiglio contenente un testo di difficile decifrazione, intento a predicare a fedeli rappresentati da galline, oche e anatre. Queste strane raffigurazioni meritano una piccola ricerca. 
Cesare Ponti, nel suo libro "Vecchia Avigliana" (Edizioni Susalibri, 2011), da cui abbiamo tratto la fotografia, scrive: "Secondo padre Bacco, questa scultura rappresenta un francescano che sta predicando e, in sostanza, si tratterebbe di una parodia caricaturale dei Frati minori di San Francesco ad opera dei Valdesi, che a quel tempo erano appunto in accesa polemica con i Francescani. Esistono però anche altre interpretazioni, tra cui quella di G. Gasca Queirazzo, secondo il quale potrebbe trattarsi di uno dei racconti del "Roman de Renart", un'opera letteraria in voga in Francia nel Medioevo, che aveva per tema le imprese furfantesche di una volpe." 
Questa seconda interpretazione non è molto attendibile, in quanto il "Roman de Renart", fu sì una raccolta di racconti medievali francese del XII e XIII secolo nei quali vediamo agire animali al posto degli esseri umani, ma poco ha a che vedere con ambiti religiosi. È, invece, assai probabile, che queste figure si collochino nel periodo a cavallo del XIV-XV secolo funestato dalle lotte tra Cattolici e Protestanti. 
Da questo punto di vista, si tratta indubbiamente di un reperto dal valore simbolico e storico assai importante, perché dalle pur poche figure rimaste possiamo ricavare molte informazioni che ci permettono di formulare qualche congettural. Partiamo, ad esempio, dalla testa di animale, volpe o asino, del monaco predicatore. È vero che nel cristianesimo la volpe venne associata all'eresia e quindi quel monaco-volpe potrebbe essere la rappresentazione di un eretico che predica la dottrina eretica della Riforma. Tuttavia, è altrettanto vero che la testa d'asino venne usata come blasfema derisione dei cristiani da parte dei pagani sin dall'inizio del diffondersi del Cristianesimo a Roma. 


Basti ricordare la lastra di pietra del I-III secolo (i pareri sono controversi), conservata dell'Antiquarium del Palatino, sulla quale un graffito raffigura un uomo dinnanzi ad un crocifisso con testa d'asino accompagnato dalla scritta "Alessameno venera (il suo) Dio". Sempre nel II secolo, Tertulliano raccontava che a Cartagine un apostata aveva raffigurato su una tavoletta il "Dio dei cristiani", definendolo "figlio di un asino", come un essere con orecchie e zoccoli asinini. 
Tuttavia, se ancora nel IV secolo San Giovanni Grisostomo raccomandava ai cristiani di non portare addosso talismani che associassero l'immagine dell'asino a Gesù, è evidente che il simbolismo dell'asino dovette avere una certa ambivalenza di difficile interpretazione, non rifacendosi solo ai pagani, ma anche e più probabilmente alle differenti correnti cristiane in lotta tra loro in quel periodo. 
Il Medioevo ereditò molte di quelle prime storie e leggende cristiane che vennero utilizzate per satire allegoriche morali e religiose, talvolta anche figurate, nei confronti del clero, anche in tempi antecedenti la Riforma. Così, ad esempio, uno dei capitelli del Duomo di Parma, scolpito da un certo Nicolò nel XII secolo, raffigura tre monaci, uno con testa d'asino, che sembra fare da precettore, e altri due monaci con testa di cane/lupo come suoi inquietanti allievi ascoltatori. 


La corrente satirica più prolifica e ricca si sviluppò, però, nel XV secolo in Germania, con la Riforma Luterana, e il ruolo dell'immagine religiosa in relazione alle critiche dei riformatori coinvolse profondamente gli artisti, dalla carta alla pietra, nel prendere di mira la Chiesa di Roma e i chierici. 
La lotta tra le fazioni cristiane risorse a nuovo vigore riproponendo ancora una volta immagini che riportano alla memoria quanto scriveva Tertulliano dodici secoli prima! Di quell'arguta e prepotente satira di carattere puramente religioso "L'Asino Papa", pubblicato a Wittenberg nel 1523 da Martin Lutero e da Filippo Melantone, è l'antesignano. Di tale libello è celebre l'incisione del "Papa asino", opera di Lucas Cranach il Vecchio. Feroce satira antipontificia, quest'opera identificava nelle caratteristiche dell'animale i mali e le degenerazioni della Chiesa. Tra l'altro, è un esempio di come, grazie al nuovo e potentissimo mezzo della stampa, la controversia religiosa scatenata da Lutero non abbia risparmiato nulla di ciò che poteva colpire l'immaginazione popolare. 


Anche in ambito francese la satira contro gli ecclesiastici e i frati si diffuse e fu copiosa e invasiva, a differenza di Italia e Spagna, dove la Chiesa riuscì a contenere l'ondata di protesta. 
È assai probabile, dicevamo, che il nostro reperto sia una testimonianza di quel periodo di scontri religiosi, anche violenti e portati avanti senza esclusione di colpi e senza pietà, tra Ugonotti, Calvinisti, Valdesi da una parte e Cattolici dall'altra, che ebbe come teatro le terre di frontiera delle Alpi Occidentali piemontesi in un continuo alternarsi di scorribande, vittorie e sconfitte delle due fasi in lotta. 
 Per la sua posizione geografica ed i forti rapporti con la Francia, anche la Valle di Susa vide il transitare di moltissimi Valdesi, perché in fuga dalle persecuzioni o per diffondere la loro dottrina. Anche ad Avigliana è nota la presenza di numerosi Valdesi in città a partire dalla metà del XIV secolo. Come ben scrisse Carlo Davite parlando della nostra valle nel suo libro "I Valdesi nella Valle di Susa", pubblicato dalle Società di Studi Valdesi il 17 febbraio 1955: "Le vicende dei Riformati sono strettamente unite a questa storia, e non vi è una gola, un colle, un altipiano che non sia stato teatro di una lotta tenace per la difesa della fede religiosa." 
Uno degli elementi di quelle scorribande fu la furia iconoclasta dei Protestanti che colpì centinaia di luoghi di culto cattolici. È curioso notare come la testa del frate della nostra colonnina, che a questo punto possiamo dire potrebbe essere stata quella di un asino, mostri i chiari segni di uno sfregio fatto per non renderla più riconoscibile. 
Si potrebbe azzardare l'ipotesi che originariamente l'opera, come dicono del XIV secolo, ma forse anche di un periodo precedente, facesse parte di un'edicola privata o di una piccola cappella cattolica e che rappresentasse, secondo un modello abbastanza diffuso nel Medioevo, un monito rivolto a clero e fedeli di rimanere osservanti della vera fede. 
Le domande di fondo rimangono le stesse: chi buttò nel pozzo questa colonnina e perché? Venne gettata nel pozzo dai Protestanti che la interpretarono come un attacco all'insegnamento della religione ritenuta eretica? O, magari, furono invece dei cattolici a disfarsene per cercare di ridurre gli attriti o per sottrarsi allo scontro? 
Ovviamente non lo potremo mai sapere, ma, anche in questo caso, così come per le armi, il fatto che sia stata gettata nel pozzo sembra essere una chiara indicazione dell'urgenza del gesto e, forse anche, della probabile vicinanza della sua provenienza. 
Sulla nostra colonnina vi è un altro dettaglio dalla simbologia estremamente interessante... Infatti, nella sua parte superiore troviamo la testa del cosiddetto Uomo Verde (la terminologia usata comunemente per queste figure è quella inglese di "Green Man"), un volto di un uomo con barba, baffi e capelli che si confonde, in modo per nulla casuale, tra foglie di quercia e ghiande. 
L'Uomo Verde, spesso confuso con l'Uomo Selvaggio, viene giustamente interpretato come la raffigurazione di uno spirito della natura, di una figura legata ai riti di fertilità pagani. Anche se potrebbe essere fatto risalire persino a taluni riti misterici romani, è indubbio che esso derivò dalle antiche credenze delle popolazioni celtiche, racchiudendo due simboli per loro molto importanti: la testa, rappresentante forza e vigore, e la quercia, dalla quale i Druidi con i loro falcetti d'oro raccoglievano il vischio, simbolo di forza vitale. 
Nel corso dei secoli, a seguito di lente convergenze di elementi ideologici e fusione o mutuazione di elementi di religioni diverse tra loro inizialmente inconciliabili, l'Uomo Verde entrò a far parte anche del mondo cristiano. Lo vediamo così frequentemente scolpito nel legno o nella pietra in chiese, cappelle, abbazie e cattedrali in tutta Europa, dove se ne possono trovare esempi a partire dal 400 d.C. 
Quante cose, dunque, in un piccolo oggetto come questo pezzo di colonnina! 
Sarebbe quanto mai auspicabile che, dopo 120 anni, venisse effettuata una nuova pulizia del fondo di questo pozzo che, grazie alle più accurate tecniche moderne, permetterebbe sicuramente di recuperare altri reperti utili per ampliare la nostra conoscenza della storia di Avigliana... e non solo....

Commenti

Post popolari in questo blog